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Roberto De Simone: osanna al figlio del tuono e del silenzio

di Fabio Galli

Se n’è andato Roberto De Simone.
Così, in un giorno di primavera, con la discrezione teatrale di chi conosce il peso della luce e del buio. Se n’è andato come un personaggio delle sue opere: silenzioso e fragoroso insieme, avvolto in una penombra sacra, un passo dopo l’altro tra la scena e l’aldilà. Napoli lo ha sentito andar via come si sente passare un’onda sottomarina, che all’apparenza non smuove l’aria, ma lascia le barche a ondeggiare incerte, come stupite.

Ma non si può davvero dire “addio” a chi ha fatto della voce un ponte tra i vivi e i morti, tra il presente e l’arcaismo più profondo. Non si può dire addio a chi ha saputo ridare senso alla parola “tradizione”, restituendole i piedi sporchi, le mani callose, gli occhi pieni di tempesta. Con De Simone non scompare un artista: si chiude una galassia, e ne resta la radiazione.

Compositore, musicologo, etnomusicologo, regista, poeta orale, storico del suono, autore teatrale, reinventore di forme liturgiche laiche — ma nessuna di queste definizioni, da sola, è sufficiente. De Simone era un alchimista della cultura, capace di trasmutare le polveri della memoria popolare in oro musicale, in parola rituale, in coreografia metafisica. La sua arte era radicata nella terra, ma guardava le stelle.

La Gatta Cenerentola, nata nel 1976, è molto più di uno spettacolo: è un’iniziazione collettiva. Lì, l’epica del popolo si sposa con la tragedia greca, le voci delle lavandaie diventano voci corali, le sorellastre non sono caricature ma archetipi, la lingua napoletana non è dialetto ma ieroglifico musicale. Chi ha assistito a quella messinscena sa cosa vuol dire trovarsi dentro un sogno contadino e barocco al tempo stesso. Quel capolavoro ha fatto irruzione nella scena italiana come una tempesta perfettamente orchestrata, lasciando intorno un silenzio nuovo: quello che segue una rivelazione.

E poi c’era il lavoro più sommerso, ma non meno grandioso: la fondazione della Nuova Compagnia di Canto Popolare nel 1967 — atto fondativo quanto una Costituzione — e le instancabili ricerche sulle musiche arcaiche del Sud, sulle nenie sacre, sulle lamentazioni funebri, sui canti di lavoro e di passione, sulle forme musicali delle minoranze e degli esclusi. De Simone raccoglieva testimonianze orali come si raccolgono reliquie: con rispetto sacrale, ma senza illusioni. Per lui, la cultura popolare non era una cartolina, ma un campo di battaglia.

Ogni gesto suo portava il segno dell’intransigenza: estetica, politica, spirituale. Non c’era concessione alla moda, non c’era seduzione facile. Solo necessità. Solo fuoco.
Anche quando fu chiamato a dirigere il Teatro San Carlo — dal 1981 al 1987 — portò con sé quello stesso rigore da veggente. Riscoprì e restituì al pubblico i tesori dimenticati del Settecento musicale napoletano, ma lo fece senza cedere alla patina decorativa, scavando nel tessuto sonoro come un archeologo del cuore. I suoi allestimenti erano restauri emotivi prima che scenografici.

E c’era in lui anche qualcosa del mistico, del sacerdote sincretico: la sua opera è pervasa da un senso liturgico del tempo e dello spazio. In scena, le attrici e gli attori non recitavano: officiavano. Le sue musiche non accompagnavano l’azione, la invocavano. De Simone conosceva la forza della ripetizione, del ritmo, del battito ancestrale: ogni tammorra che appariva nei suoi lavori era un organo cardiaco aggiunto al corpo della scena.

Era un figlio del tuono, e lo si sentiva nei momenti di visionaria intensità, quando i cori montavano come mare in tempesta. Ma era anche figlio del silenzio, di quel silenzio rarefatto che segue le cerimonie, di quel silenzio che ascolta, che custodisce. Nei suoi lavori non c’era mai enfasi gratuita: solo stratificazioni, come nella musica dei secoli, come nella terra di Napoli.

Non insegnava: trasmetteva. Non rappresentava: evocava. E lo faceva con la maestria di chi ha dialogato per tutta la vita con gli spiriti della memoria.
Se n’è andato, ma non si è allontanato. Lo si sente nelle strade del centro antico, tra le voci dei venditori che cantilenano senza sapere di intonare una nenia del Quattrocento. Lo si sente nei riti della Settimana Santa in Campania, nei cori delle femmine che piangono i morti, nei bambini che danzano senza saperlo nella grammatica coreutica della taranta.

Roberto De Simone è diventato eco. È diventato segnale. È diventato intermittenza della luce e del suono.
E se oggi Napoli lo piange, non è con le lacrime, ma con le voci.
Con i tamburi. Con le voci rotte e potenti.

Un osanna, dunque.
Non un elogio funebre, ma un’invocazione.
Un osanna a chi ha saputo ridare dignità alle nostre ombre, e renderle canto.
Un osanna a chi ha attraversato la modernità portando con sé le ossa del passato come strumenti da suonare.
Un osanna a chi ha saputo fare della morte una danza, e della danza, una resurrezione.

E adesso, che il sipario non cali.
Ma resti aperto.
Perché De Simone continua.
Nel tuono.
E nel silenzio.

 

 

(9 aprile 2025)

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