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Conoscenza e affetti umani, riflessioni sui vuoti moderni e pandemici #Gaiambiente di Vanni Sgaravatti




di Vanni Sgaravatti, #Gaiambiente

La base della supremazia culturale occidentale (almeno fino a qualche anno fa) sta nel riconoscimento profondo della propria ignoranza e quindi nella curiosità per diminuirla allo scopo (spesso non voluto) di diventare potenti.  Gli imperi premoderni utilizzavano la scienza per valorizzare quello che sapevano già e che pensavano fosse “tutto”.

Ma nessun “occidentale” era consapevole di quelle che sarebbero diventate le finalità di utilizzo della ricerca e delle scoperte e, quindi, del nuovo potere acquisito.

Certezza della conoscenza o certezza dell’ignoranza
La teoria dell’evoluzione ha comportato vantaggi scientifici e culturali importanti all’occidente, ma non per questo Darwin si è imbarcato nel Beagle per imporre il dominio della tecnoscienza e neppure il capitano del Beagle che mappava le coste lo faceva per imporre il dominio imperiale e culturale occidentale in quelle terre desolate. Ma una volta trovati ad avere un vantaggio competitivo, difficilmente i tacchini si mettono nel forno da soli e non lo sfruttano. Le critiche a questo sfruttamento di tipo morale e culturale provengono solo dall’interno degli sfruttatori, rileggendo la storia con il senno del poi. Gli sfruttati non hanno tempo per criticare, combattono per liberarsi dal potere soverchiante se possono.

Immaginare tecnoscienziati intenti a pianificare il dominio, invece di riflettere sulle dinamiche di un sistema, cercando di “mettersi nei panni di …”, prendendo distanza dal proprio ragionamento istintivo proteso a obiettivi di breve termine (vedi il “Sistema 1” di Kahnemann, “l’elefante” di Haidt) significa perdere l’occasione di comprendere le tendenze di fondo.

È interessante riflettere, per differenza, sul nostro modo di conoscere il mondo rispetto a quello degli imperi premoderni: quelli che pensavano di sapere tutto e, sulla base di questo, conquistare il mondo. Approccio che evidentemente non è quello centrale del pensiero occidentale dell’età moderna.

Una storiella divertente, riportata nel libro di Harari “Da animali a Dei”, narra di un incontro fatto dagli astronauti che andarono sulla luna, mentre si allenavano in una zona desertica dell’Ovest degli USA. Incontrarono degli anziani pellerossa, a cui raccontarono cosa stavano facendo. Questi, compreso il motivo, li fecero aspettare perché dovevano scrivere un messaggio che gli astronauti avrebbero dovuto imparare a memoria e portare sulla luna, dove stavano i loro spiriti. Gli astronauti lo impararono a memoria in una lingua a loro sconosciuta, ma poi trovarono il modo, rientrati alla base, di trovare un traduttore. La frase misteriosa diceva: “non credete a nulla di quello che vi dicono questi, vi ruberanno poi tutta la terra” (anche se loro non lo sanno).

E anche oggi, continuiamo ad essere ignoranti soprattutto su come utilizzare diversamente scienza e conoscenza (la direzione etica da dare, per intenderci), ma non possiamo però, se nauseati da certi effetti applicativi della tecnoscienza, convincerci che nella luna ci sono gli spiriti con cui parlare.

Nel denunciare in modo angoscioso l’incertezza del mondo moderno pandemico e la pluralità e l’ignoranza degli scienziati che non danno più risposte  sicure; nell’immaginare che da qualche parte ci sia la fonte della verità che viene taciuta per qualche piano consapevolmente definito (complottismo); nel sognare la “certezza del mondo che fu” e che proprio perché è già esistito è più certo del futuro che deve ancora avvenire; c’è qualcosa di contradditorio con le ragioni di fondo che hanno determinato nel bene e nel male la nostra cultura “occidentale”, il nostro umanesimo, liberista, socialista o evoluzionista che sia: l’ignoranza è costitutiva del nostro mondo.

La riflessione sembra un remake della contraddizione forse ancora più profonda: perché nasciamo se poi dobbiamo morire?

Da una parte, abbiamo acceso i riflettori sull’individuo, come oggetto individuale e non sulle relazioni, dall’altra cerchiamo di trovare risposte alle contraddizioni, tentando di ricostruire una teoria del collettivo che senza soluzione di continuità si colleghi alle percezioni del singolo. Più viviamo contraddizioni e paradossi laceranti, più proviamo a colmarli con certezze ideologiche, oppure speriamo che la scienza possa sostituirle, quando, per definizione, questa si è storicamente alimentata dalla condizione ontologica dell’incertezza.

Un mondo che improvvisamente ci appare con molti buchi e molti vuoti, in cui la trama della narrazione che sosteneva il nostro senso del vivere ci appare talvolta lisa, talvolta slabbrata. Vuoti che non si limitano naturalmente alla relazione con il mondo, al desiderio di conoscere e di prevedere per prevenire l’ignoto, ma alle nostre relazioni affettive con l’altro.

 

Affetti e comunità immaginarie
Il potere della cultura è immenso, se in due secoli ha sostituito le comunità e famiglie con Stato e mercato: oggi lo Stato sostituisce le comunità di base o ristrette (quelle con individui che si conoscono reciprocamente) con quelle in cui il senso di appartenenza avviene tramite immaginazione creata dai media con individui mai conosciuti. Ci sono sempre state le comunità immaginarie, quelle che hanno permesso la costituzione degli imperi, ma quelle ristrette avevano una funzione importante ora emotivamente riempite da quelle immaginarie. In questo non pongo un giudizio di valore, se l’individuo si è affidato a istituzioni come stato e mercato è perché l’offerta liberatoria dalle costrizioni delle comunità era davvero allettante.

Siamo pieni di comunità immaginarie, il partito, la squadra del cuore, un’immaginaria identità storico-culturale, qualche volta la nazione. Queste catturano le nostre emozioni, mentre la comunità ristretta basata sulla conoscenza degli individui si sta sempre più emotivamente rarefacendo. La pandemia sembra stia dando un’accelerazione ulteriore, forse possiamo sperare che produca più velocemente un desiderio verso una direzione contraria.

Quando compare un sentimento di affetto all’interno di una comunità di amici, che dialogano, ad esempio, tramite WhatsApp, talvolta mi salta al cuore una sottile sensazione di nostalgia e commozione. Quando però vedo che nelle relazioni di un ritrovato gruppo e nei relativi discorsi prendono troppo spazio le singole appartenenze a tutte le comunità immaginarie di appartenenza, magari vissute o cresciute in solitudine, con il tentativo comprensibile e missionaristico di creare solidarietà tra compagni di quelle comunità, allora mi pervade una sottile sensazione di tristezza. Quasi scoprissi improvvisamente che, “vicino a me”, ci fosse l’avatar dell’amico che lui ha mandato a rappresentarlo in sua vece.

In realtà una comunità reale ristretta vissuta esiste ancora, oggi, magari non duratura come un tempo, magari non celebrata e riconosciuta socialmente come una volta, ma esiste: moglie, marito, compagno, compagna e figli. Diciamo allora, che c’è uno spazio vuoto, una distanza troppo grande tra comunità: da quella ristrettissima, diciamo intima, alle comunità immaginarie allargate, quando, invece, siamo cresciuti abituati da un certo filo di continuità, quasi dei cerchi concentrici di comunità, senza salti troppo grandi tra loro.

Ma se per le persone più anziane questo può essere il motore di un’inquietudine esistenziale, di un disagio talvolta colmato dalla dolcezza di un ricordo nostalgico, ma anche fonte di un patrimonio di conoscenza che aiuta a cercare di mantenere le relazioni affettive della nostra storia, per i giovani la questione assume altri significati.

Sembra, come si sente dire da molti terapeuti che, per i nostri ragazzi “occidentali”, questo “vuoto” o discontinuità relazionale stia diventando ancora di più, una fonte di ulteriore disorientamento, di incapacità di apprendimento che incide sulle capacità cognitive e quindi affettive, che di solito permetterebbero di trovare ritmo e armonia nella relazione con il mondo o almeno di sapere come allenarsi per trovarla.

A volte mi pare di vederci tutti come fossimo stesi sopra una rete di protezione che ci sostiene sopra l’abisso della mancanza di senso, tessuta in tutta fretta da quando abbiamo la coscienza di esistere, in cui avvertiamo improvvisamente angoscianti scriccolii, che ci spingono a inserire rattoppi in tutta fretta, senza talvolta sapere dove inserirli. O forse è solo la turbolenza, l’agitazione che l’urgenza del cambiamento richiede per la necessaria metamorfosi, per trasformarci in una farfalla che, volando, vede il mondo con nuovi occhi, senza bisogno di reti o almeno di quelle reti. Se così fosse, dovremmo accettarla, questa angoscia, guardarla negli occhi, senza scorciatoie fittizie, perché la posta in gioco è alta.

Dovremmo scoprire come fare per liberare noi stessi da quello stesso fattore, la crescita, diventata una ricetta ideologica, che però ci ha dato la possibilità di scoprire come trovare nuovi orizzonti, o meglio nuovi occhi con cui guardarli.

Senza, però, pensare come certi illusionisti vogliono far credere che la decrescita sia necessariamente felice e che non si porti dietro la dolorosa frattura tra umani tesi a riformulare i propri desideri in senso meno “materiale” e umani per cui la sopravvivenza è legata a quella materialità, proprio mentre i primi umani “gridano che siamo nella stessa barca” ai secondi, verso cui sono debitori per la loro stessa crescita. Un bel problema, una bella sfida.

 

(13 febbraio 2021)

©gaiaitalia.com 2021 – diritti riservati, riproduzione vietata

 

 





 

 

 

 




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