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Scienza e salvaguardia ambientale tra globale e locale

di Vanni Sgaravatti #gaiambiente twitter@gaiaitaliacom #Ambiente

 

Il mondo dentro di noi, noi dentro il mondo: “a long twilights struggle” (John  Kennedy)

 

Scienza e innovazione

Proprio quella trasformazione della natura da parte dell’uomo, la tèchne degli antichi Greci, quel penetrarne i suoi segreti, che a partire dal metodo sperimentale della scienza moderna sin da Galileo ha contribuito ad uno sviluppo progressivo della condizione umana, le cui luci ed ombre ora ben conosciamo, si sta rivoltando contro le stesse dinamiche evolutive naturali che hanno portato l’homo sapiens ad essere la punta avanzata di questa evoluzione.

La scienza e la tecnologia, la cosiddetta tecnoscienza, sembrano, comunque, indispensabili per trovare soluzioni appropriate al degrado ambientale, soprattutto se si ritiene che azioni di sola riduzione del carico inquinante non siano ormai sufficienti a salvaguardare nel tempo il nostro pianeta, e se dobbiamo piuttosto immaginarci azioni di adattamento.

Adattamento in un mondo, che, essendo mutato e “degradato” non è più quello da cui è partito lo sviluppo industriale e che, a maggior ragione, richiede azioni di redistribuzione degli oneri e delle relative conseguenze sociali.

Ricordiamo qui solo alcuni processi che furono alla base delle successive innovazioni tecnologiche: dalla conoscenza dei segnali amplificati che ha dato origine ai transistor ad inizio secolo scorso, alla ricerca di flussi di onde coerenti come base per lo sviluppo del laser ed infine alla fisica quantistica.

Fisica e meccanica quantistica che si basano, in particolare, sul principio di indeterminazione di Heisenberg, secondo cui è impossibile conoscere simultaneamente e con completa precisione tutti i parametri riguardanti un oggetto quantico (fotone o elettrone) incluse la sua posizione e la sua velocità.

Un concetto che “apre le porte” all’utilizzo delle regolarità delle distribuzioni di probabilità, per le previsioni dei fenomeni, invece di un approccio deterministico puntuale a cui si aspirava nella scienza dell’800. Fenomeni indagati attraverso le probabilità e fondate su una realtà costituita di relazioni, in cui l’osservatore non è separabile dall’oggetto osservato.

Ma, mentre la ricerca scientifica si è sviluppata in questa direzione, il nostro istinto si conforma ancora ad un pensiero deterministico, di relazione lineare causa ed effetto, con una ricostruzione dei fatti con il senno del poi, immaginando sempre una causa, a cui si intende dare un “volto” umano, soggetto responsabile e consapevole, perché, essere alla mercè dell’inafferrabile caso, in continui feed back di sistema, altrettanto inafferrabili, produce troppa angoscia. Un istinto la cui evoluzione, necessaria a fronteggiare un mondo naturale che muta rapidamente, appare troppo lenta.

Non sembrerebbe allora un buon motivo, per considerare importante il contributo della scienza e iniziare a prendere distanza dai nostri istinti, cercare di allenare il pensiero affinché possa accettare ragionamenti controintuitivi?

Pensieri lenti, pensieri faticosi, quelli della riflessione critica e sperimentale, ma inevitabili, se è vero che senza l’innovazione tecno scientifica, organizzativa e comportamentale non pare si possa invertire la tendenza che sta portando alla devastazione del capitale naturale e al collasso delle società umane.

Inutile, quindi, criticare il mondo in cui viviamo, provando nostalgie verso un mondo passato che non ritorna, attribuendo ai “tecnologi” una presunta mancanza di sensibilità verso l’”anima” delle cose, tipico di un certo idealismo o, al contrario, sperare, con un atteggiamento magico e provvidenziale, nelle capacità taumaturgiche delle moderne tecnologie; oppure disquisire della bellezza della matematica, invece della sua presunta intrinseca freddezza.

Ed appare inutile anche riproporre sterili contrapposizioni tra i sostenitori dei benefici dell’innovazione tecnologica finalizzata alla sostenibilità dello sviluppo e i sostenitori dei rischi etici che questa innovazione comporta, se non si ragiona su esempi e casi concreti, nei quali si evidenziano sia i costi che i benefici delle scelte tecnologiche. Questo perché, se è vero che il contenuto scientifico è di difficile divulgazione, non lo è invece il racconto di tali casi concreti (un elenco di alcuni di questi viene riportato in una scheda della versione lunga di questo articolo che si invia, su richiesta e rilevati dal libro: “La Terra a Rischio. Il capitale naturale e la ricerca della sostenibilità” di Claude Henry e Laurence Tubiana (Mulino Editore) e dalla lettura della relativa bibliografia.

 

Scienza, mercato e manipolazione dell’informazione

Sappiamo dei rischi del modo di considerare la natura un meccanismo e non un organismo. Nel primo caso si può riprogettare, sostituendo i singoli pezzi, nel secondo caso tutte le parti sono collegate e sono parti integrate nel sistema.

E sappiamo, anche come gli obiettivi del mercato non sono talvolta compatibili con la massimizzazione del benessere collettivo: è il caso dei beni comuni e di quelle risorse che non hanno prezzo, ma i cui benefici vengono goduti da gruppi di individui, mentre i costi sono scaricati alla collettività.

Sappiamo che, in teoria, la scienza e l’informazione potrebbero rendere consapevoli gli stakeholders umani di queste distanze tra obiettivi, di mercato, umani, naturali e suggerire correzioni; che la scienza e l’informazione potrebbero essere impiegate per una migliore regolamentazione di attività che comportino rischi di depauperamento delle stesse risorse che garantiscono la qualità della nostra vita. Ma nel rapporto tra stakeholders, che operano nei vari processi decisionali, la scienza e l’informazione non sono così lineari.

La maggior parte della scienza opera in condizioni di incertezza, persino in situazioni in cui non si conosce neppure la distribuzione di probabilità di ipotizzabili eventi. Questa condizione, unita alla logica di funzionamento della scienza, da Galileo in avanti, cioè quella di confronto delle ipotesi con l’esperienza concreta dei fatti, così come rilevati e percepiti dagli strumenti disponibili, e, quindi, della crescita per prove ed errori, presta il fianco ad un sistematico discredito della stessa scienza, messo in atto per finalità private di agenti economici.

Le attività di lobbying, di disinformazione, che giocano sulle asimmetrie informative, sulle distorsioni cognitive, sulla incapacità di comprendere il mondo complesso, sul sistema emozionale, percettivo, mnemonico sono pianificate in modo sistematico e sono finalizzate a promuovere l’accettabilità sociale e di mercato di beni, servizi prodotti a scala industriale, che utilizzano, indiscriminatamente, risorse naturali e locali.

Utilizzo non regolamentato da criteri etici, che permettano di contenere lo sfruttamento locale e di orientare la necessità di soddisfare bisogni globali, spesso indotti, di finalizzare le forze in campo verso salvaguardia del benessere collettivo e di rispondere alle esigenze di chi nel mercato non si può esprimere, perché non ancora nato.

Le azioni disinformative sono ben codificate, attraverso la creazione di gruppi di lavoro, di fondazioni, di enti di ricerca con nomi di pregio, che acquisiscono collaborazioni prestigiose, minimizzano eventuali conflitti di interesse, quando gli esperti esprimono pareri contrari a quelli di mercato; finanziano ricerche utili e nobili insieme a quelle che sono di parte e utilizzano dati statistici spuri, così da confondere le acque giocando sulla credibilità acquisita dall’Ente.

Azioni disinformative che giocano, soprattutto, sulle stesse incertezze degli scienziati e dei tecnici, di norma impegnati in una continua verifica e messa a punto delle teorie, oppure agiscono attuando azioni che screditino l’affidabilità personale dell’esperto che volesse esprimere pareri contro e fuori dal coro.

E, ancora, tali azioni, fanno leva strumentalmente sul senso comune: “come puoi dirmi che gli scienziati hanno idea di quale sarà il clima fra cento anni se non sono neanche in grado di dirmi che tempo farà fra quattro mesi o persino la prossima settimana?”, oppure sulla caparbietà, fatta passare per ostinazione ideologica degli scienziati.

Si possono citare alcuni esempi: da quello famoso delle battaglie condotte dalle industrie del tabacco, allo scudo stellare da utilizzare potenzialmente come arma nella guerra fredda al tempo di Reagan, alle preoccupazioni sul riscaldamento globale contrastato dai negazionisti repubblicani americani e tanti altri. Ma il caso di tentata disinformazione, che ci sembra più preoccupante e più emblematico di un difficile e complesso rapporto tra scienza, conoscenza e politica economica e che ha riguardato la Commissione europea è quello degli interferenti endocrini: elementi chimici di sintesi, prodotti in gran numero, ma compresi in un elenco non definito, visto che le nuove sostanze non vengono adeguatamente testate prima di essere messe nel mercato.

 

La componente non-etica del mercato e del suo fallimento

Il mercato non funziona come lo pensano i neoliberisti, la cui ricostruzione ideale e conseguente narrazione è irrealistica: la manipolazione dell’informazione, fattore extramercato, è sistematicamente adottata sia per dare un indirizzo alla ricerca, sia per la valutazione negativa in merito alla fattibilità economica di progetti alternativi. E sembra parte integrante delle logiche economiche che sottendono allo sviluppo del business, in particolare delle grandi multinazionali.

Il mercato, cosiddetto libero, inoltre, non tiene conto della disuguaglianza nella valutazione dei costi e benefici, delle esigenze della sopravvivenza delle risorse, umane locali o naturali; non tiene conto dell’utilizzo indiscriminato della biodiversità da parte dell’industria e, infine, non tiene conto del costo dei beni collettivi: è il caso della proprietà del sottosuolo da parte di agricoltori americani, che tendono a drenare tutta l’acqua possibile della falda, perché altrimenti sarebbe usata dal concorrente.

Non solo, il mercato gioca sia sulle asimmetrie informative, che sulle asimmetrie cognitive derivanti dalla mancanza di un pensiero critico, ma tende ad ostacolare la regolamentazione che dovrebbe essere considerata necessaria per tenere conto di queste distorsioni.

Una regolamentazione extra mercato che, in realtà, è sempre esistita ed esiste anche nei posti con una cultura neoliberista accentuata. Le regole, infatti, non possono non esistere, perché il mercato nasce con le regole, se si pensa all’affidabilità delle forme di assegni e cambiali fin dai tempi preindustriali, in cui la cultura morale di un paese diventava elemento di funzionamento di un mercato che necessitava di una sostanziale affidabilità degli operatori del mercato.

Del resto, anche nelle narrazioni dei liberisti più puri, le regole ci sono e sono quelle di base, tipo: non uccidere e, in virtù della accettazione di questa regola, la repressione degli assassini. Mentre altre regole sembrano non essere considerate necessarie dai promotori di un progresso economico senza imposizioni statali, quali: un rigoroso mantenimento dell’indipendenza dei soggetti che controllano, verificano e fanno ricerca.

Quindi, alla fine dei conti, cosa regolare e come farlo è una scelta determinata dalla cultura così come si manifesta contingentemente e non dipende da un metodo di gestione economica e dei mercati, che pretende di essere generale e universale. Possiamo, a questo proposito, citare Singer: “se non definiamo attentamente il ruolo dello stato nel regolamentare i pericoli, non vi è sostanzialmente alcun limite a quanto il governo possa infine controllare le nostre vite” (paradosso della regolazione e dell’intrusione nella vita privata dello Stato).

Il “mercato politico” è quindi una forza che agisce nella stessa competizione economica e, quindi, i riformatori progressisti, che propongono indipendenza e ruolo incisivo della ricerca indipendente e delle attività di regolamentazione, in realtà, non introducono un elemento nuovo e distorcente del mercato, quando chiedono che l’etica faccia parte dell’economia. In realtà, continuano, a promuovere regole e regolamentazioni, che orientano l’economia ed il mercato, comprese comunque in altre visioni di politica economica, anche se cercano di introdurre, in tali attività di regolamentazione, criteri e valori diversi, più democratici e più attenti alle disuguaglianze e all’ambiente.

Non è una rivoluzione utopistica del buon funzionamento dell’economia. Qui, se di utopia si parla, è di quella politica, cioè quella che crede sia possibile che la governance del pianeta e dell’economia delle risorse non sia orientata da interessi di pochi. Ancora la solita vecchia questione, anche se ora c’è in ballo una perdita di tutti, anche di quei pochi e quindi un tentativo di svegliare, sia i pochi che i molti, da una corsa sfrenata verso il nulla.

 

 

(6 gennaio 2020)

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