di Fabio Galli
C’è una figura, nella cultura italiana del secondo Novecento e oltre, che non ha mai avuto paura di essere scomoda, solitaria, minoritaria: si chiamava Goffredo Fofi, ed è morto lasciando un vuoto che solo chi ha ancora fede nella coscienza critica può comprendere fino in fondo.
Fofi non era solo un critico, un saggista, un militante o un testimone: era una voce. Una voce irriducibile, affilata come una lama e insieme tenera, spesso impastata di indignazione, sempre mossa da un impeto etico che non cercava consenso, ma verità. Non ha mai indossato le vesti dell’intellettuale accademico: preferiva quelle del viandante, del raccoglitore d’erbe amare, del narratore di realtà invisibili. Era un uomo di sinistra, certo, ma soprattutto era un uomo libero. E lo è rimasto fino alla fine.
Nato a Gubbio, ma cresciuto tra Napoli e la Francia, si formò nell’Italia del dopoguerra, tra le speranze del Sessantotto e le disillusioni del riflusso. Giovanissimo, fondò riviste, scrisse su giornali, partecipò a battaglie culturali e civili che l’hanno visto spesso isolato, quasi mai inquadrabile. Tra le sue creature più amate: Lo Straniero, rivista che è stata per anni una delle pochissime oasi in cui il pensiero non era ridotto a slogan o posizionamento editoriale.
Fofi è stato tra i primi, in Italia, a parlare di cinema come fatto politico, a rileggere Pasolini non come poeta della nostalgia ma come profeta del disastro antropologico in atto, a difendere la cultura “altra”, quella delle periferie, degli immigrati, dei dimenticati. Si è battuto per una cultura popolare non populista, per un’educazione che emancipasse davvero, per un’arte che non tradisse mai la sua vocazione morale. Ha scritto centinaia di articoli, decine di libri, con una passione che travalicava le mode. Leggerlo significava esporsi, prendere posizione, fare i conti con la propria coscienza.
Nell’epoca della neutralità come feticcio, Fofi era tutto fuorché neutrale. Amava le parole “giustizia”, “comunità”, “povertà”, ma ne conosceva il prezzo e non ne faceva retorica. Conosceva le trappole del potere, anche quello “di sinistra”, e non smise mai di denunciarle, con la forza e la lucidità del moralista francescano. Senza pulpiti. Senza parrocchie. Senza divise.
Aveva un amore profondo per la pedagogia, ereditato da Capitini e Don Milani, e un rispetto assoluto per i ragazzi: li vedeva come interlocutori veri, non come target. Parlava con loro, non sopra di loro. E quando li osservava arrendersi al vuoto contemporaneo, lo faceva con dolore, mai con disprezzo. Aveva ancora, fino a poco tempo fa, una specie di candore negli occhi: quello che resta ai bambini che hanno visto troppo e agli adulti che ancora sperano.
Era, sì, un intellettuale fuori dagli schemi. Ma era anche – soprattutto – un uomo buono, nel senso più alto e raro della parola. Di quella bontà che non fa sconti, che ti obbliga a guardarti dentro, che ti sveglia nel cuore della notte con una domanda: “A che cosa stai servendo, adesso, con quello che scrivi, con quello che dici, con quello che non hai il coraggio di fare?”.
Oggi, con la morte di Fofi, perdiamo un faro. Ma anche un fratello maggiore, uno che sapeva accogliere e bastonare, abbracciare e criticare. Uno che ci ha insegnato, in tempi sempre più cinici, che pensare è un atto d’amore. E che essere davvero liberi significa non appartenere a nessun clan, a nessuna casta, a nessun algoritmo.
Ora che se ne va, silenziosamente come visse, ci resta il compito più difficile: non tradirlo. E provare, almeno ogni tanto, a guardare il mondo con i suoi occhi. Lucidi, febbrili, indomabili. Come se ogni giorno fosse una chiamata a rispondere di ciò che siamo.
(11 luglio 2025)
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