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Sanità pubblica o privata? Politica e cittadini da che parte stanno?

di Massimo Mastruzzo*

Mentre la sanità privata cresce, la pubblica arretra: i cittadini restano in attesa e la politica, divisa, spesso alimenta il problema.”

Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), nato con la legge 833 del 1978, rappresenta uno dei pilastri del welfare italiano. Ispirato al principio costituzionale di equità e universalità, ha garantito per decenni cure accessibili a tutti, indipendentemente dal reddito o dalla regione di residenza.

Negli ultimi trent’anni, però, qualcosa è cambiato. Le riforme del 1992-1993 hanno avviato l’aziendalizzazione del SSN, introducendo logiche gestionali e finanziarie nuove, che hanno progressivamente aperto le porte alla sanità privata. Se in passato gli ospedali erano quasi esclusivamente pubblici, oggi l’offerta sanitaria è profondamente cambiata.

Ma com’è potuto accadere questo spostamento silenzioso verso il privato, in un sistema nato per garantire un diritto fondamentale come quello alla salute, sancito dall’articolo 32 della Costituzione?

Politica e ideologia: chi spinge cosa

Alla base del cambiamento c’è una componente ideologica e politica.

I partiti del centrosinistra tendono a difendere la sanità pubblica come elemento centrale di giustizia sociale, rivendicando l’universalità e l’accesso gratuito o quasi alle cure.

I partiti del centrodestra, al contrario, sono spesso più favorevoli a un ruolo attivo del privato, ritenendolo più efficiente e in grado di alleggerire il carico sul pubblico.

Non a caso, l’attuale governo di centrodestra tende a promuovere soluzioni sanitarie che riducono l’impegno pubblico e incentivano l’offerta privata, anche attraverso l’ampliamento delle polizze assicurative integrative.

Una sanità pubblica sottofinanziata spinge inevitabilmente i cittadini verso il privato. L’Italia spende per la sanità pubblica meno della media europea, e questa spesa cresce più lentamente rispetto ad altri paesi UE. Il risultato è un sottofinanziamento cronico che si traduce in due fenomeni: taglio ai servizi pubblici oppure spinta, più o meno esplicita, verso il settore privato.

Le polizze sanitarie integrative, ad esempio, si stanno diffondendo sempre più grazie agli accordi aziendali, ma non tutti i cittadini ne hanno accesso. Chi non può permettersi una copertura aggiuntiva rischia di restare indietro.

Le disuguaglianze territoriali: Nord e Sud a due velocità

Le disuguaglianze si aggravano soprattutto sul piano geografico. Al divario già noto tra Nord e Sud in termini di reddito, mobilità e infrastrutture, si somma quello relativo all’accesso ai servizi sanitari.

Una delle cause principali è l’iniqua redistribuzione dei fondi sanitari pubblici. Il Fondo Sanitario Nazionale viene ripartito tra le Regioni secondo criteri che non considerano in modo adeguato indicatori come povertà, carenza di strutture o bassa densità di personale sanitario.

Il risultato?

In Lombardia, la spesa sanitaria pubblica pro capite supera i 2.200 euro annui.

In Calabria, Basilicata o Campania, questa cifra si aggira intorno ai 1.800 euro o meno.

Un gap di oltre 300-400 euro per cittadino, ogni anno.

Questo meccanismo ha conseguenze gravi: fuga dal pubblico verso il privato per chi può, rinunce alle cure per chi non può. E soprattutto, una “migrazione sanitaria” interna che costringe ogni anno decine di migliaia di pazienti del Sud a spostarsi al Nord per ricevere cure adeguate.

Di fatto, viene violato il principio costituzionale di equità, e la salute rischia di diventare un diritto condizionato dal codice postale.

Chi spinge oggi verso la privatizzazione? In primis, la destra – in particolare la Lega – che sostiene modelli regionali come quello lombardo, dove il settore privato ha ampio spazio ed è spesso in convenzione con il pubblico.

Ma anche il centrosinistra ha le sue responsabilità. Con la riforma del Titolo V della Costituzione (legge 3/2001), voluta proprio da una maggioranza di centrosinistra, si è aperta la strada a una maggiore autonomia delle Regioni in ambito sanitario. Questo ha portato a una frammentazione del sistema e a diseguaglianze territoriali sempre più marcate.

L’autonomia differenziata proposta oggi dal governo Meloni rischia di aggravare ulteriormente il problema, spingendo le Regioni più forti a trattenere maggiori risorse e lasciando indietro quelle in maggiore difficoltà.

Ripartire dall’Equità

Il Movimento Equità Territoriale propone una revisione dei criteri di riparto del Fondo Sanitario Nazionale, che tenga conto dei reali bisogni delle popolazioni, e non solo della quantità. Servono politiche attive per ridurre la migrazione sanitaria, riequilibrare l’accesso ai servizi e arginare la fuga verso il privato, anche quello convenzionato.

Il privato può avere un ruolo complementare, ma non deve sostituire il pubblico né dettarne le regole. La sfida è riequilibrare il sistema, restituendo al SSN la sua funzione originaria: garantire equità, universalità e tutela della salute per tutti i cittadini, indipendentemente da dove vivano o quanto guadagnino.

La questione non è “pubblico o privato”, ma che modello di società vogliamo costruire.

Uno in cui la salute è un diritto, garantito dallo Stato per tutti?

O uno in cui si cura solo chi può permetterselo, mentre gli altri restano in coda o rinunciano?

Le risposte non possono essere affidate al mercato. Spetta alla politica – e ai cittadini – scegliere, con consapevolezza, da che parte stare.

 

*Direttivo nazionale MET
Movimento Equità Territoriale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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