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Il Brasile Infelice #Milapersiste

di Mila Mercadante #milapersiste twitter@milapersiste #gaiaitaliacom

 

La pandemia in Brasile è diventata per i media solo un’altra opportunità per attaccare Bolsonaro, per narrare di falsi tentativi di golpe e per diffondere dati senza un minimo di analisi. Una volta stabilito che Bolsonaro è un personaggio orribile e indifendibile si potrebbe anche tentare di comprendere le cause di un sostegno popolare che è calato ma che tutto sommato regge ancora. Si dice che il consenso al governo si sia ridotto drasticamente ma non è vero: la sottovalutazione della pandemia non ha tanto rovinosamente scalfito la fiducia in un Presidente negazionista che a dispetto della realtà definisce il covid19 un’influenzetta di poco conto. Il più recente sondaggio Datafolha si può leggere qui http://datafolha.folha.uol.com.br/opiniaopublica/2020/05/1988738-48-defendem-renuncia-de-bolsonaro-e-50-sao-contra.shtml

Sappiamo che i risultati dei sondaggi non sono oro colato ma ignorarli completamente è opinabile.

Per quanto riguarda i decessi (che contrariamente al calcolo dei contagi restano l’unico elemento affidabile) i dati in tempo reale si possono leggere qui https://www.statista.com/statistics/1104709/coronavirus-deaths-worldwide-per-million-inhabitants/  e indicano che nel mondo altri Stati molto più ricchi e/o molto meno popolosi stanno piangendo in proporzione più morti per milione di abitanti rispetto al Brasile. Non sottovalutare il dramma epocale del Brasile non significa che si debba aggiustare la realtà a proprio piacimento.

Il Brasile occupa il 47% della superficie del Sudamerica, ha circa 210 milioni di abitanti ed è pieno di contrasti e differenze non solo tra un gruppo sociale e l’altro ma tra una città e l’altra, un quartiere e l’altro.

La gran parte della popolazione è costituita da afrobrasiliani che sono discendenti degli schiavi africani dei tempi delle colonizzazioni e discendenti degli emigrati congolesi e angolani; i bianchi europei sono per il 55% portoghesi e spagnoli, poi ci sono gli italiani, i tedeschi, gli slavi, gli scandinavi, i coreani, i giapponesi e da ultimi i pochissimi amerindi rimasti. Quello che i brasiliani chiamano miscigenação (meticciato o “sbiancamento”), sin dai tempi dello schiavismo ha prodotto una società etnicamente mista, con una maggioranza di mulatti (moreni) rispetto ai neri e con l’80% della popolazione che ha acquisito almeno il 10% di geni di origine africana: tra il bianco e il nero c’è un’infinita varietà di sfumature, non si sa “dove bianco finisce e nero comincia”, ragion per cui ufficialmente il paese viene considerato privo di pregiudizi razziali, capace di fondere insieme armonicamente tante culture, tanti valori. Naturalmente questo non è vero, non c’è fusione: l’economia di mercato non ha cancellato i rapporti razziali sviluppatisi durante i secoli dello schiavismo, la struttura di classe li ha ereditati e conservati elaborandoli in modo ambiguo, non istituzionale bensì informale, in un sistema che viene definito democrazia razziale e che si potrebbe chiamare meno ipocritamente razzismo inclusivo.

Il Brasile dal punto di vista della legislazione anti-discriminazioni è avanzato ma il fatto che per legge il 20% dei posti di lavoro nelle agenzie federali sia destinato agli afro-brasiliani conferma la necessità di contenere la discriminazione. La questione di classe (che implica una coscienza forte e decisa di tutte e due le parti) in Brasile coincide senza dubbio con quella razziale ma i contrasti non sono in grado di influenzare la prassi. La condizione economica dei brasiliani bianchi di provenienza europea è nettamente privilegiata, sono loro che dettano le regole, che godono di una buona assistenza sanitaria e di un’istruzione superiore che garantisce l’accesso a carriere prestigiose e a ottimi posti di lavoro. La società è gerarchica e maschilista, la discriminazione di genere è più accentuata di quella razziale malgrado il fatto che sempre più donne occupino ruoli un tempo riservati agli uomini, guadagnando comunque molto meno.

Il famoso Cristo Redentore di Rio De Janeiro abbraccia dall’alto un numero sempre più esiguo di cattolici: il Brasile, pur preservando pratiche religiose afro-brasiliane, era il paese più cattolico del mondo ma da circa due decenni la Chiesa evangelicale fa proseliti a un ritmo impressionante e il cattolicesimo perde i suoi fedeli anche a causa della forte ostilità del Vaticano nei confronti della Teologia della Liberazione, corrente cattolica presente in Brasile e in altri Stati latinoamericani sin dagli anni ’60 che insegna i precetti e il Vangelo e contemporaneamente insegna ai cittadini ad aver coscienza dei propri diritti e a pretenderne il rispetto. L’importante dirottamento dal cattolicesimo all’etica protestante della Chiesa evangelicale ha avuto notevoli ripercussioni sui comportamenti e sul modo di pensare: non si dà più per scontata la priorità della vita rispetto all’economia. Bolsonaro evidentemente nell’affrontare la pandemia ha tenuto conto anche di questo, soprattutto per una questione di interesse personale: alla ricca Chiesa evangelicale il lockdown non piace e il governo la asseconda, potendo contare solo sul suo sostegno, su quello dei proprietari terrieri e di una parte delle forze armate, mentre sul fronte opposto i nemici sono molti di più.

La stampa, le televisioni, la magistratura e il Tribunale Supremo, nonché i governatori della maggior parte dei 26 Stati federali, sono tutti uniti in una guerra acerrima e tenace contro il Presidente. I media brasiliani tra un insulto e l’altro chiedono l’impeachment e le dimissioni ogni giorno, la magistratura ha sistematicamente bocciato i decreti governativi sin dalla nascita del governo e anche durante la fase pandemica, infine i governatori – che in materia di salute pubblica godono di indipendenza decisionale – durante la pandemia hanno applicato misure restrittive, quarantene e chiusure di  aeroporti contro il parere del governo centrale, un po’ per tutelare i cittadini e un po’ per fare propaganda in vista delle elezioni del 2022. Malgrado tutto dunque alcuni provvedimenti per contenere i contagi sono stati presi.

Tanti nemici interni non scongiurano il pericolo di una deriva autoritaria. Alle elezioni del ’22 gli Stati Uniti guardano con preoccupazione: non vogliono più Bolsonaro, cercano un sostituto che eviti disordini sociali e – soprattutto – il ritorno sulle scene del PT.

Questa guerra non piace ai brasiliani. Non si fidano di un’informazione che non sta dalla parte dei cittadini e che ha già contribuito a far fuori governi certamente migliori di questo seguendo i dettati di gruppi di interesse economico; tra l’altro i cittadini sanno perfettamente che l’apparato mediatico non perdona a Bolsonaro i drastici tagli ai fondi di cui beneficiava. Non si fidano neanche delle toghe corrotte (rappresentano il deep state del paese) e sono scandalizzati di fronte a certe discutibili manovre del Tribunale Supremo. Bolsonaro certamente non è meno corrotto e spregiudicato degli altri, in più è di una rozzezza imbarazzante, eppure quando vuol far tremare i polsi ai nemici interni incitando le folle a manifestare per le strade, i cittadini raccolgono l’invito. Tra i due fuochi scelgono chi gli ha dato il coronavaucher, che durante la pandemia ha già portato sussidi di 600 reais al mese nelle tasche di 50 milioni di indigenti. I coronavaucher saranno distribuiti a breve ad altri 30 milioni di persone. Questi 80 milioni di uomini e donne fanno parte dell’elettorato storico di Lula, che ha fatto molto per loro: non amano Bolsonaro e nello stesso tempo non hanno mai visto un sussidio così elevato e sono rimasti delusi dalle promesse mancate del PT e dal suo cambiamento in chiave blairiana.

Almeno la metà dei cittadini percepisce un salario minimo di 413 reais al mese, che equivalgono a 80 euro. L’85% di questi poveri vive nelle favelas ai margini delle grandi città o in alloggi insalubri e non ha un contratto di lavoro regolare. Il lavoro nero coinvolge oltre 40 milioni di persone non istruite che non hanno tutele, che vengono sfruttate (soprattutto nel settore agricolo) o che praticano il cosiddetto jeitinho, l’arte di arrangiarsi intesa come categoria dello spirito, un’attitudine che smorza nel sottoproletariato l’inclinazione alle lotte e ai cambiamenti politici radicali. Questi cittadini nel quotidiano conoscono dello Stato solo il braccio armato, la repressione. La mattina si riversano nelle strade in cerca di lavoretti e di affarucci legali o illegali oppure se la cavano con le vendite ambulanti (non menziono la criminalità, che richiederebbe altre considerazioni). Sono tutte persone che non hanno mai potuto mettere da parte un po’ di risparmi. E’ comprensibile che considerino restrizioni e lockdown una disgrazia nella disgrazia ed è necessario che chi osserva dall’esterno si domandi se in un tale contesto di disparità questi poveri – stando chiusi in case sovraffollate che non sono case – non si sarebbero ugualmente infettati, non sarebbero morti di violenze (la magistratura per limitare i contagi ha deciso che la polizia non deve entrare nelle favelas durante la pandemia), di fame o di mancanza di cure alle quali non avrebbero avuto facile accesso, così come è sempre stato sotto qualunque governo.

La tv più importante del paese, Rede Globo, sin dall’inizio della pandemia continua a mostrare personaggi importanti e divi dello spettacolo che dalle loro confortevoli dimore incoraggiano la popolazione a restare a casa, con l’effetto di provocare rabbia e sarcasmo. Per buona parte del popolo brasiliano la pandemia non è la maggiore delle preoccupazioni: non bisogna sottovalutare il loro rapporto con la morte, che è molto intimo. Noi europei non ne abbiamo idea. Lì sono abituati alle falcidie in grande e i dati sulla pandemia diffusi dai media non hanno l’effetto che hanno qui: ogni anno in Brasile muoiono ammazzati dai 40mila ai 50mila cittadini (tra questi anche tanti minori), altri 40mila perdono la vita negli incidenti automobilistici e non sappiamo quanti ne muoiano per mancanza di assistenza sanitaria o per incidenti sul lavoro. Ciò che sappiamo è che un povero che abita a San Paolo vive 23 anni in meno rispetto a un concittadino della classe media.

 

(30 giugno 2020)

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