di Mila Mercadante #MilaPersiste twitter@milapersiste #Politica
L’IGIENE PUBBLICA
“A fronte della ricchezza materiale esiste una ricchezza vivente, valutabile in miliardi di marchi […] Ci stiamo avvicinando a una sintesi logica della biologia e dell’economia. La politica dovrà essere in grado di realizzare in modo sempre più stretto questa sintesi, che è oggi appena agli inizi ma che permette già di riconoscere come un fatto ineluttabile l’interdipendenza di queste due forze. […] E’ indispensabile che il medico collabori a un’economia umana razionalizzata, che vede nel livello della salute del popolo la condizione del rendimento economico. Le oscillazioni della sostanza biologica e quelle del bilancio materiale sono parallele” Otmar von Verschuer, biologo, capo dell’ufficio genetico del Terzo Reich.
La biopolitica – termine volentieri frainteso – descrive un intero ciclo storico che comincia con la rivoluzione francese, con la “politicizzazione della vita” messa in atto dalle democrazie borghesi e arriva ai giorni nostri con l’affermazione del mito della salute, o del perfetto stato di salute fisica e mentale, che si è sviluppato compiutamente a partire dalla fine della seconda guerra. Nel XX secolo prende via via forma una figura diversa di medico e un diverso modo di rapportarsi alla vita e alla morte. Oggi non si muore quasi mai in casa propria bensì in ospedale o in altre strutture e il medico è diventato la figura politica di un tempo impolitico: è lui che decide se e per quanto tempo un soggetto malato può sopravvivere grazie ai progressi della scienza. La morte al tempo della tecnica si può dare e si può rimandare, dunque il malato abbandona la presa sulla propria esistenza e si mette nelle mani dell’esperto che sa prevedere e gestire, che individua per ognuno se è arrivato il momento di staccare la spina. Non è obbligatorio cedere al potere del medico, non è obbligatorio servirsi per esempio dell’eutanasia che la legislazione di alcuni paesi consente, nessuna autorità impone alcunchè, eppure per l’uomo contemporaneo, che è diventato soggetto e oggetto del sapere “il “tu puoi” esercita persino più costrizione del “tu devi”: l’autocostrizione è più fatale della costrizione estranea, poiché contro se stessi non è possibile alcuna resistenza” (Byung-Chul Han). Accanimento terapeutico, eutanasia, suicidio assistito, buona morte, costo sociale dei malati cronici, sono tutti criteri che hanno sconvolto completamente il nostro modo di rapportarci alla salute, alla vecchiaia, a noi stessi. Il “falso vivo” in coma, oppure il vecchio che viene abbandonato al suo destino perché in rianimazione non c’è posto per tutti, o il depresso che chiede allo Stato di essere aiutato a suicidarsi definiscono quello che è l’homo sacer, vale a dire la vita che può essere uccisa senza per questo commettere un omicidio.
LA SCIENZA
“Medici e sovrani si scambiano le parti” Giorgio Agamben – Homo sacer
Durante la pandemia ci siamo fidati ciecamente di esperti che ogni giorno contraddicevano l’uno le tesi dell’altro, accrescendo le nostre incertezze. La tecnologia come strumento di cura ma anche di totale controllo sociale, l’industria farmaceutica, la salute mitizzata e la tutela medico-sanitaria hanno creato un mondo di uomini e donne che Ivan Illich definiva pre-malati e disincarnati: in base a statistiche, analisi scientifiche e calcoli di probabilità gli individui acquistano la cosiddetta consapevolezza del rischio, smettono di essere casi unici e irripetibili e rientrano in una categoria, in una casistica. Faccio un esempio banale quanto eclatante della trasformazione del rapporto dell’uomo con la salute e col suo corpo: qualche anno fa l’attrice Angelina Jolie, avendo consultato luminari della scienza e avendo scoperto di avere ereditato da parte materna il gene mutante BRCA1, che quasi certamente le avrebbe causato il cancro del seno, dell’utero e delle ovaie, ha eliminato quei pezzi del suo corpo e così il rischio. Immagino che i luminari le abbiano garantito che in futuro nessun altro organo del suo corpo sarebbe stato aggredito da un cancro, in caso contrario la bellissima signora sarebbe sparita un pezzo alla volta per ansia da prevenzione. E’ solo un aneddoto ma dimostra quanto sia invasivo il controllo sulla salute esercitato dagli esperti che volenti o nolenti noi percepiamo come esseri umani sacri, “come le loro controparti religiose e militari”. Vivendo in una società di sopravvivenza, la nostra principale preoccupazione è schivare i rischi, come se fosse veramente possibile e come se questo evitamento non comportasse una perdita in termini etici e politici.
ATTALI SCAMBIATO PER XI JINPING
Jacques Attali nel 2009 su L’Express scrisse che l’umanità evolve solo quando ha veramente paura e a tale proposito fece riferimento all’epidemia influenzale in corso quell’anno: “La pandemia che sta iniziando potrebbe scatenare una di queste paure strutturanti in grado di far crescere, meglio di qualunque discorso umanitario o ecologico, la presa di coscienza della necessità di un forte senso altruistico e disinteressato”. Concluse il suo intervento affermando che la Francia divenne un vero e proprio Stato quando nel XVII secolo fondò i primi ospedali, modelli ispiratori della buona politica.
La salute può essere considerata come un dovere, come il bene supremo al quale sacrificare tutti gli altri beni supremi?
No, se si pensa che durante la pandemia ci si è sacrificati soprattutto per paura, con una soglia di sopportazione direttamente proporzionale alla collocazione geografica. No, se si pensa che porre la nuda vita al di sopra dell’esistenza intesa come un insieme ricco e complesso sia una stortura. A evitare il rischio è l’ultimo uomo, quello che mette la salute davanti a tutto e diventa preda della paura, un “servo lavoratore” che ha cancellato completamente dalla propria esistenza – senza averne neanche la consapevolezza – la prospettiva della morte come fatto naturale e della morte come concetto politico: esservi disposto per l’affermazione di un’idea che lo trascenda.
Si, se sotto l’effetto di un sentimentalismo epistemico travestito da ideologia si pensa che le rinunce alle quali siamo stati obbligati attestino sentimenti di solidarietà e di sacrificio per la salvaguardia della collettività, in particolare dei più deboli. Il fatto che in Italia e in tutto il mondo siano stati fatti morire nell’abbandono proprio i deboli, coloro che volevamo e dovevamo tutelare più di chiunque altro (anziani, poveri, persone affette da altre patologie) dovrebbe indurre come minimo a una riflessione. Nel deserto semantico che ci avviluppa da troppo tempo, l’idea meravigliosa di prendersi cura degli altri e di aiutare la sanità pubblica a non collassare definitivamente standosene chiusi in casa ha preso piede in un giorno: significava avere a cuore il destino di ognuno, dare una mano agli operatori sanitari, sulle cui larghissime spalle sono stati scaricati anni di tagli al SSN nonché tutti gli “orrori/errori” volontari o involontari commessi durante l’emergenza. Questa sentimentalità la conosco molto bene, mi ha coinvolta completamente nelle prime tre settimane: mi sentivo una soldatessa al servizio della collettività. Dopo ho cominciato a provare un profondo e crescente disagio, infine ho cominciato a pormi domande e a cercare in giro qualche voce fuori dal coro che mi confermasse che una divisione così esplicita e radicale tra sani e malati non fosse una cosa buona.
AGAMBEN E IL LOCKDOWN
Il filosofo Giorgio Agaben ha dovuto scusarsi per aver minimizzato la pericolosità del virus (era febbraio e lo fecero in tanti) e nel periodo successivo ha dovuto difendersi dalle accuse e dal biasimo di una maggioranza troppo occupata a chiudersi in un recinto costruito con quattro parole d’ordine, una delle quali è (e sarà, se dovesse ripetersi) “lockdown”, senza neanche riflettere sui danni occorsi a quella vasta parte della popolazione che non ha vissuto lo stare a casa da borghese, o per lo meno con qualche entrata o un po’ di risparmi su cui contare. Quando si parla di disfunzioni e decessi causati dalla pandemia è doveroso inserire nella lunga lista l’aumento dei suicidi e dei tentativi di suicidio, l’aumento dei TSO, l’aumento dei licenziamenti, la mancanza di risorse economiche che ha colpito i lavoratori senza tutele, l’aumento di seri problemi di salute per i disabili e per i malati cronici che non hanno avuto accesso alle cure, l’aumento delle violenze domestiche.
Ad Agamben va riconosciuto il merito di aver tentato di stimolare un dibattito più che necessario sui principi generali della politica pubblica e sulla loro influenza riguardo alla nostra percezione del mondo, sull’abdicazione della politica in favore della scienza anche in assenza di scienza. Un dibattito nato stentato perché nel nostro paese l’importante non è riuscire a guardare le cose da diverse angolazioni, non sia mai: l’importante è prendere una posizione netta e soprattutto fare in modo che non abbia a che fare neanche per una virgola con le posizioni della parte politica avversa, cosicché un argomento che ci riguarda tutti da vicino come lo stato di eccezione – che è il terreno scivoloso in cui non si fa più distinzione tra legge e vita – è stato ridotto a una ridicola gara tra gli esaltati negazionisti e la sinistra radicale che difendeva il rigore, i presunti irresponsabili e i presunti responsabili, i moralisti che a marzo si facevano portare la pizza a casa e i fessi insopportabili dell’aperitivo, ai quali un medico ha indirizzato una minaccia tombale (per lui) “se vi ammalerete non vi cureremo”. Che dire infine della guerra aperta da parte dei media alla Svezia? Non si tratta di parteggiare per la Svezia o di mettere in dubbio le insidie della pandemia, si tratta di pretendere un’informazione corretta, di preoccuparsi moderatamente per il domani e di mettere in dubbio l’opportunità di alcune decisioni prese, a volte talmente contraddittorie da sembrare prese in giro. In termini di efficacia la superiorità del lockdown così come lo abbiamo avuto in Italia rispetto a metodi di chiusura più morbidi non è ancora dimostrabile. In ogni caso vale la pena di riportare la frase di un economista svedese evidentemente dotato di humour, Fredrik Erixon: “Non è la Svezia che sta conducendo un esperimento. Sono tutti gli altri”.
In questi mesi gli esiti di alcune decisioni e le responsabilità gravissime di alcuni governanti sono stati scaricati spesso sulla popolazione. I controlli a tappeto “contro” i cittadini e nessun controllo sui luoghi di lavoro hanno tenuto in piedi la tesi della nostra indisciplina e della nostra irresponsabilità, ragion per cui adesso che è tutto aperto se qualcosa andrà storto sarà colpa nostra. La malattia come colpa è l’apoteosi del capitalismo, il contagio come colpa è l’attestazione della nostra impotenza.
IL FUTURO
In seguito ad altre emergenze alcune leggi eccezionali, per esempio quelle per combattere il terrorismo, sono rimaste in vigore negli anni e neanche ci facciamo caso. Ci fanno caso sicuramente i cittadini di serie B. Alcuni aspetti del cambiamento attuale erano già da prima oggetto di discussione e oggi vanno avanti speditamente: la pandemia velocizza molti processi sociali ed economici e alcuni progetti per il nostro futuro. Il lavoro da casa, per esempio, potrebbe diventare una modalità diffusa e “normalmente necessaria”. Non a caso se ne parla esaltandone i vantaggi e minimizzandone gli svantaggi, che sono sia di carattere economico (svalutazione del dipendente che è meno presente in azienda) sia di carattere psicologico (mancanza di concentrazione, assenza di orari con conseguente aumento del tempo dedicato al lavoro, senso di solitudine dovuto alla perdita del confronto quotidiano con i colleghi ecc). La stessa cosa, con qualche implicazione anche più seria, vale per lo studio da casa.
Indossare abitualmente le mascherine potrebbe diventare un’abitudine che stabilisce una regola, come accade nei paesi asiatici. Poco male? Niente affatto, questo sancirebbe un cambiamento culturale e pscicologico non indifferente, per i più giovani soprattutto: la mascherina cela l’aggressività così come la benevolenza, o il sorriso amichevole, rendendoci meno inclini a “leggere” i volti delle persone, che assimileremmo come neutri, “uguali”. Tenere tre quarti del viso coperti di fronte agli altri può avere un significato altruistico (ti proteggo) ma può averne uno diametralmente opposto (temo che tu possa arrecarmi danno). La separazione tra familiari e amici ritenuti “sicuri” da un lato ed estranei dall’altro non può non avere conseguenze nel modo di pensare e di vivere. Ancora: il tracciamento digitale, fortunatamente ancora in fase embrionale qui da noi, potrebbe far parte delle nostre vite come accade nei paesi asiatici, dove i big data hanno sostituito virologi ed epidemiologi nella lotta alle epidemie modificando non poco il concetto di sovranità, che appartiene a chi ha in mano i dati dei cittadini.
Ringrazio chi è arrivato fin qui.
(12 giugno 2020)
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