di Massimo Mastruzzo*
“Non vogliamo rassegnarci al suicidio delle aree interne”, scrivono i Vescovi italiani in una lettera aperta indirizzata al Governo e al Parlamento, al termine del convegno nazionale tenutosi a Benevento. Le loro parole sono dure, ma necessarie: denunciano con coraggio lo stato di abbandono di ampie zone del Paese, in particolare quelle dell’Italia interna, sempre più svuotate di persone, servizi, opportunità. Una condanna che rischia di diventare definitiva, se non si interviene subito con una visione diversa.
Eppure, la sofferenza delle aree interne non è un caso isolato, né un’anomalia secondaria. Essa fa parte di una più ampia disomogeneità territoriale che riguarda l’intero Mezzogiorno d’Italia. Un divario profondo, strutturale, che non ha eguali tra i Paesi membri dell’Unione Europea.
Se il problema delle aree interne è l’abbandono progressivo, quello del Sud è l’emarginazione sistematica. Entrambi, però, condividono una radice comune: la mancanza di volontà politica di riequilibrare davvero il Paese.
Il nodo infrastrutture: dove mancano, servono di più
Gli investimenti infrastrutturali sono il motore dello sviluppo. Lo dimostrano gli economisti con il concetto di effetto moltiplicatore: ogni euro speso in infrastrutture genera una crescita del PIL superiore al valore iniziale. E questo effetto è ancora più forte proprio nei territori in ritardo di sviluppo, dove l’assenza di strade, ferrovie, connessioni digitali e trasporti pubblici è un ostacolo quotidiano alla vita, al lavoro, ai servizi.
Eppure, in Italia succede l’opposto: le infrastrutture si moltiplicano nei territori già serviti e si rarefanno dove sarebbero più utili. Come se fosse più facile – o più conveniente politicamente – costruire il superfluo piuttosto che garantire l’essenziale.
Il caso delle aree interne, come quello del Sud, lo dimostra: ogni progetto sembra dover affrontare un percorso a ostacoli. Non per mancanza di fondi, non per carenza di idee, ma per una sistematica mancanza di volontà. È qui che entra in gioco anche la Costituzione, con il suo articolo 3, che sancisce l’uguaglianza sostanziale tra tutti i cittadini. Un principio troppo spesso ignorato.
L’appello dei Vescovi: basta abbandono, servono visione e coraggio
La CEI, attraverso la voce dei suoi Vescovi, lancia un appello che va ben oltre la pastorale: chiede incentivi per il controesodo, riduzione delle imposte, smart working, innovazione agricola, valorizzazione turistica e culturale, banda larga, telemedicina, trasporti pubblici, co-housing nei borghi. In sintesi: un piano integrato di rilancio, non solo di sopravvivenza.
Un appello che potrebbe (e dovrebbe) valere anche per il Sud Italia. Perché se le aree interne rischiano il “suicidio assistito”, il Mezzogiorno assiste da anni a un lento declino demografico, produttivo e sociale, con milioni di giovani costretti a partire per cercare altrove ciò che il loro territorio non offre più.
Il Paese si salva tutto insieme, o non si salva
La lezione è chiara: non può esistere un’Italia di serie A e un’Italia di serie B. Investire dove manca tutto non è una concessione, è una necessità strategica. Le aree interne e il Sud non sono “problemi da gestire”, ma opportunità da cogliere, riserve di umanità, cultura, biodiversità, bellezza e resilienza.
Finché continueremo a ragionare per emergenze e non per visioni, per logiche di consenso e non per giustizia territoriale, continueremo a perdere. Non solo al Sud o nei borghi dimenticati, ma tutti. Perché un Paese diseguale è un Paese più fragile, più diviso, meno competitivo.
Ripartire dalle periferie – interne e meridionali – non è solo un gesto etico. È la vera politica industriale di cui l’Italia ha bisogno.
Un’alleanza per la giustizia territoriale
In questo scenario di squilibri cronici e diritti negati, il Movimento Equità Territoriale si pone come voce coerente e determinata a difesa del Sud e della giustizia tra i territori. Da anni combatte per denunciare le profonde disuguaglianze infrastrutturali, sociali ed economiche che affliggono il Mezzogiorno, portando avanti battaglie concrete per l’applicazione piena del principio costituzionale di uguaglianza.
Non stupisce, dunque, che il Movimento si riconosca pienamente nelle parole dei Vescovi delle aree interne. La denuncia di un “suicidio assistito” di intere comunità è anche la denuncia, più ampia, di un Paese che ha smarrito il senso dell’equità, della solidarietà e dell’interesse nazionale.
Sostenere quanto affermato dalla CEI significa rafforzare una battaglia comune: quella per un’Italia unita non solo nella geografia, ma nei diritti, nelle opportunità, nell’accesso ai servizi fondamentali. Perché non ci può essere futuro per l’Italia senza il rilancio delle sue aree più fragili. E non ci sarà vera crescita se continueremo ad abbandonare le fondamenta stesse della nostra identità.
*Direttivo nazionale MET
Movimento Equità Territoriale
(2 settembre 2025)
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